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I problemi relativi alla salute mentale sono sempre esistiti, ma quella della pandemia è in una situazione così insolita che questo tema così delicato è venuto maggiormente alla luce, anche in relazione alle prestazioni lavorative.

Dall’inizio della pandemia, il nostro settore ha subìto un’accelerazione della sua evoluzione verso una fase ancora più digitale, in cui siamo sì più connessi ma anche più distanti. E gli esseri umani hanno bisogno di tempo per elaborare un cambiamento e adattarsi alla nuova realtà. L’impennata di problemi di salute mentale ha messo questo argomento finalmente sotto i riflettori, sia a livello individuale sia aziendale.

Siamo diventati più consapevoli, non abbiamo più scelta, non possiamo più ignorare questo aspetto delle nostre vite. Ed è anche grazie ai social che ora sempre più categorie di persone comunicano di non stare bene – I’m not ok (come, del resto, era stato per il movimento #meetoo o #blacklivesmatter) – liberando la salute mentale dall’etichetta di tabù per lasciarla entrare nei comuni argomenti quotidiani.

Di questo si è parlato allo scorso LocFromHome online dell’11 novembre 2021 in una tavola rotonda che ha visto alternarsi Yuka Nakasone, Michal Antczak , Rachida Chekaf e Mairead deBlaca, tutti e quattro con ruoli di responsabilità all’interno di aziende del settore linguistico e tecnologico.

Vista la situazione sanitaria nuovamente delicata che ha accompagnato e sta accompagnando il passaggio dal 2021 al 2022, i loro interventi offrono molti spunti per affrontare la questione della responsabilità della nostra e dell’altrui salute mentale non solo come individui ma come lavoratori (dipendenti o freelance) o datori di lavoro.

La domanda Come stai? e la definizione di “salute mentale”

Ormai l’incertezza è diventata la normalità, cosa che inevitabilmente influenza il nostro stato d’animo: attacchi di panico e stati depressivi sono sempre più ricorrenti. Se non altro, però, ora ne siamo più consapevoli e prestiamo più attenzione a ciò che succede dentro di noi, oltre che fuori. Anche la “banale” domanda Come stai? viene fatta in modo più attento da chi la pone, e chi la riceve non risponde più “Sto bene” o “Tutto ok” in modo frettoloso e quasi distratto, bensì “Sono preoccupato/a” e “Sto bene, ma…”.

Di conseguenza, ci si interroga di più sul concetto di “salute mentale”. Sia ai partecipanti della tavola rotonda sia al pubblico collegato online ne è stata chiesta una definizione. Quello che è emerso è molto interessante:

  • “È la sensazione di sentirsi a proprio agio con se stessi, col mondo, con tutto.” (Michal Antczak)
  • “È essere felici, non preoccupati, non stressati. È molto difficile mantenerla in questo mondo veloce e moderno, qualsiasi sia il campo in cui lavoriamo. È correlata all’importanza di comunicare, di condividere i propri stati d’animo.” (Mairead deBlaca)
  • “È la propria salute generale, compresa quella fisica” (Yuka Nakasone)
  • “È ciò che sostiene le nostre attività quotidiane e le rende realizzabili col sorriso.” (Rachida Chekaf)
  • “È essere consapevoli di tutte le emozioni che si stanno provando, saperle definire e utilizzare per gestire le situazioni esterne, soprattutto quelle difficili. È quindi la consapevolezza di ciò che succede dentro per gestire ciò che succede fuori.” (pubblico online)

Avete mai provato a definire la salute mentale? Che cos’è per voi?

La pandemia come acceleratore della comunicazione digitale nelle aziende: pro e contro

La pandemia ha accelerato, se non addirittura forzato, molti cambiamenti e processi nelle persone, nelle istituzioni e nelle aziende. In particolare, ha spostato la comunicazione dal reale al digitale. Che conseguenze ha avuto tale cambiamento sulla salute mentale rapportata al lavoro?

Secondo Mairead deBlaca, se da una parte abbiamo guadagnato tempo (per esempio, possiamo fare la lavatrice mentre lavoriamo), in realtà siamo più soli. Manca quel rapporto a tu per tu in ufficio: un caffè, una chiacchierata di persona su un film ma anche su un’attività lavorativa da svolgere. In RWS, l’azienda dove lavora come Global Head of Culture and Communications, dall’inizio della pandemia si sono inseriti nuovi colleghi e responsabili, ma la loro conoscenza è ferma al virtuale, così come per la maggior parte dei clienti.

Michal Antczak invece è Head of Localization Technology in PayPal, azienda grandissima e quasi del tutto remota e capillare già da prima (a parte la sede principale). Secondo lui la pandemia, forzando la digitalizzazione della comunicazione, ha permesso a tutti in azienda di sentirsi parte di essa. Non c’è più la differenza tra chi lavora in sede e chi lavora da remoto: tutti sono uniti dalla e nella realtà digitale.

Anche secondo Rachida Chekaf, Head of Translations presso Axelos, il fatto che tutti lavorino da casa è sinonimo di inclusività e aggiunge che ciò, in termini di resilienza, ha aiutato molto le persone, soprattutto chi ha famiglia.

E a proposito di resilienza, secondo Yuka Nakasone, Chief Strategist – Globalization and Localization in Global Bridge, chi era resiliente di natura lo è diventato ancora di più ed è la resilienza a generare la forza mentale, in inglese mental toughness. “Quando immaginiamo qualcosa di tough lo associamo a qualcosa di solido, infrangibile, duro; ma la vera forza mentale è la capacità di essere flessibili e di adattarsi. Tuttavia, non dobbiamo abusare di resilienza e di forza mentale, non dobbiamo essere troppo resilienti, bensì equilibrati.”

Mantenere la propria salute mentale come individui e lavoratori: l’importanza della consapevolezza

Spetta a noi prenderci cura della nostra salute mentale in modo più costante e consapevole, come individui e come lavoratori, sia che occupiamo un ruolo di responsabilità in azienda, sia che siamo dipendenti o liberi professionisti.

Ognuno deve farlo nel modo più adatto alle proprie esigenze mentali, purché dedichi tempo a dare alla mente un nutrimento che non sia lavoro. Questo può tradursi in fare attività fisica, passeggiare all’aria aperta, trascorrere del tempo di maggior qualità con amici e famigliari, rifugiarsi nel mondo dei libri, ascoltare podcast, fare yoga, cucinare, prendersi dei periodi di stacco o vacanza: l’importante è che siano attività durante le quali non si pensa a nient’altro e che permettono al cervello di riposarsi e di non concentrarsi su ciò che preoccupa e genera ansia, in un equilibrio tra lavoro e vita privata.

Inoltre, ora che la questione della salute mentale è venuta più alla luce, è sicuramente utile e soddisfacente mantenere questa consapevolezza, cercando sempre di guardare noi stessi da fuori, fare autoanalisi, meditare e praticare la mindfulness, non dimenticando mai l’importanza della condivisione dei propri stati d’animo, magari chiamando o videochiamando di più gli amici, chattando di più con loro, puntando a costruire reti di comunicazione anch’esse più consapevoli.

 

Le aziende e l’investimento sulla salute mentale

A livello aziendale, perché è importante la salute mentale dei responsabili, dei dipendenti e/o dei freelance? Che impatto ha sulle dinamiche lavorative? E soprattutto, chi ha la responsabilità di prendersene cura?

Michal Antczak e Mairead deBlaca hanno punti di vista molto simili. Per entrambi, ogni azienda è come una comunità dove vengono riprodotte le dinamiche della nostra società: gli individui devono prendersi cura gli uni degli altri e partecipare in modo proattivo allo sviluppo comune, portando avanti un dare-avere, un sostegno e un benessere reciproci. Nelle aziende, quindi, sia i responsabili sia i dipendenti devono puntare insieme agli stessi obiettivi e i primi non devono occuparsi solo della parte finanziaria o amministrativa, bensì del benessere generale, compreso quello mentale. Se i responsabili si occupano di tutto l’insieme, i dipendenti metteranno tutto l’impegno nell’azienda, in una dinamica di dare-avere; non ci saranno quindi burnout e nessun cliente verrà trattato male. Di conseguenza, la salute mentale diventa una parte importante del funzionamento di tutta l’azienda come comunità, come società.

Quindi, in ottica di sviluppo gestionale, ogni azienda grande o piccola deve investire in programmi di assistenza mentale e in programmi di assessment e counseling che includano dei training specifici anche per i responsabili: sono loro la prima linea di difesa se qualcosa non va, dunque devono essere pronti ad affrontare qualsiasi tipo di problema, compresi quelli mentali.

Inoltre, bisogna chiedersi più spesso “come stai?” tra colleghi, prestare attenzione a chi lavora a casa da solo, incoraggiare le persone dando loro consigli (sia anche “solo” quello di andare a farsi una passeggiata distensiva), creare gruppi di supporto per lavoratori-genitori e non perdere mai di vista la diversità e l’inclusione. Ormai il lavoro non è più solo un mezzo di guadagno, ma un “pacchetto completo”, soprattutto per le nuove generazioni di lavoratori.

E i dipendenti neo-assunti? E i freelance? Secondo Rachida Chekar, ci sono alcune buone pratiche da attuare nei confronti di queste due categorie. Verso i nuovi dipendenti, bisogna assicurarsi che abbiano tutti gli strumenti per lavorare, metterli in contatto con il team giusto, creare networking e relazioni tra di loro, affinché non provino solitudine e si sentano inseriti, benché nuovi. Per quanto riguarda i freelance, invece, che a livello finanziario dipendono dagli LSP, se un LSP è in difficoltà, è buona pratica che non lo comunichi necessariamente ai freelance: questi hanno già sentito questa affermazione mille volte dall’inizio della pandemia e si sentiranno sempre in bilico e costantemente sul punto di perdere il lavoro. Va garantita una mole di lavoro/parole minima soprattutto ai freelance con cui si ha un rapporto lavorativo migliore e la comunicazione con loro va mantenuta in maniera chiara, costante e rassicurante. Tutte buone pratiche per ridurre, se non eliminare, lo stress e mantenere la salute mentale.

Infine, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo esseri umani, tutti. Abbiamo tutti le stesse paure e stiamo vivendo le stesse esperienze (nonostante le differenze culturali). Dobbiamo quindi aiutarci gli uni con gli altri se siamo in difficoltà, ascoltarci reciprocamente in modo proattivo e profondo, costruire la fiducia reciproca. E anche avere il coraggio di dire di non stare bene, anche se è una cosa difficile da ammettere a livello caratteriale e/o culturale.

It’s ok not to be ok.

E voi che cosa fate per prendervi cura della vostra salute mentale? Nel vostro posto di lavoro è un aspetto che viene preso in considerazione? Se siete freelance, i vostri clienti vi hanno mai chiesto, davvero, come state? Raccontateci le vostre esperienze nei commenti.

Martina Stea

Martina Stea

Romana, classe 1987, consegue la Laurea magistrale in Letterature e traduzione interculturale nel 2012 presso l’Università degli Studi Roma Tre. Nel 2017 consegue un Master in Traduzione specializzata tecnico-scientifica nelle combinazioni linguistiche EN>IT ed ES>IT, presso l’Agenzia formativa tuttoEUROPA di Torino. Da allora è felicemente una traduttrice freelance, ma da ottobre 2018 fa anche dell’altra sua passione un lavoro: tra una traduzione e l’altra, infatti, Martina gira il mondo zaino in spalla come coordinatrice di viaggi di gruppo. La sua ambizione è diventare quanto più nomade digitale possibile.

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